martedì 24 febbraio 2009

Lucio ci aspetta!

Ci andiamo da tre anni ormai. Schio e il Pasubio, chi ci avrebbe mai pensato? Grazie a.... in virtù del fatto che.... complice una.... Chissà qual è il termine giusto! Diciamo che in relazione ai trascorsi veneti di Leo I abbiamo potuto conoscere dei posti incredibili. Salite di tutto rispetto che piegano le biciclette tanto son dure, paesini sperduti e civilissimi, gente simpatica e beòna, sentieri e neve talmente impegnativi da farci tremar le gambe prima, durante e dopo il trekking e poi.... il Vin!!! E Lucio ne è il dispensatore magno, il sacerdote, il profeta. Distribuisce Vin, cibo e battute. Si espone in prima persona come fanno i Grandi: è il primo a bere e a mangiare, è l'ultimo a smettere, è il migliore a scherzare su tutto, è il più fantasioso a sacramentare, è la persona giusta per metterti allegria. Una Mission.
Gestisce una trattoria a Sant'Ulderico di Schio, "da Eolo". Nome più azzeccato non c'è: guardatelo, sembra sempre sul punto di soffiare allegria su ogni cosa.

Ci siamo andati una volta d'estate per pedalare e due d'inverno per camminare. Il solito zoccolo duro composto da me, da Leo I, da Simone, da Leo II e da Albi. Anche quest'anno ci torniamo, è il nostro modo di fuggire. E' la nostra Patagonia, la nostra Arca Perduta.

Qui a lato trovate le foto di un blitz esplorativo di qualche giorno fa. Io, Andrea, Stefano, Lucio e la sua compagna ukraina. Se siete pigri cliccate qui: http://picasaweb.google.com/irbixx/LucioCiAspetta?feat=directlink


Vostro Moro di Signa alias irbix cioè Franco

domenica 22 febbraio 2009

IL SENSO DEL TATTO - di Giuseppe Valentini


L'anziano uomo era conosciuto dall'intero paese per il suo modo affabile di conversare con la gente.
Molti lo interrogavano sul senso della vita. Lui aveva un modo tutto speciale di viverla, diceva che per affrontarla bisogna pensare che il corpo, a lungo andare, si deteriora e pertanto devi allenarti a sfruttare anche le parti del corpo che usi meno. “Vedete - diceva - io ho imparato ad usare anche la mano sinistra, così all'occorrenza, posso usarla al posto della destra.
Per la vista sto imparando la lettura braille, così se la vista venisse a mancare potrei ancora leggere tranquillamente ed attraverso questa ho scoperto quanto sia importante anche il senso del tatto. Un tempo non davo peso a questo quinto senso, poi col passare del tempo, ho iniziato a valorizzarlo, qualsiasi cosa che io tocchi la sensibilità dei miei polpastrelli trasmette sempre al mio cervello sensazioni che si collegano a ricordi della mia gioventù. Spesso, quando sfioro casualmente la pelle di una giovane, così compatta e liscia, mi ricorda quella della prima e unica donna della mia vita. Mi diceva che sapevo accarezzarla con delicatezza da farle accapponare la pelle. Me ne accorgevo perché il mio tatto, in quei momenti, si faceva più ruvido. Inoltre mi succede anche quando tocco qualcosa di caldo o freddo. Il tatto in queste situazioni ha dei limiti invalicabili; quando il calore è eccessivo il tatto ti avverte che, per non bruciarti, devi togliere la mano da quella sorgente di calore, come quando il freddo raggiunge un limite inferiore allo zero devi fare altrettanto per non rimanere congelato. Puoi anche affidarti ad esso per controllare le stoffe ed altro, in questi casi il tatto diventa il giudice delle qualità che tocchi. In fondo anche l'amicizia ha a che vedere con questo senso, perché una stretta di mano si fonde con il tatto dell'altro. Un tempo nei mercati la stretta di mano concludeva gli affari fra i contadini ed era più importante di una firma su un contratto. Esiste anche un modo metaforico di dire "agire con tatto", ed è vero. Però a me piace accostare il significato del tatto alla carezza in quanto, al di là dei cinque sensi, è quello che esalta e coinvolge anche gli altri, perché sprigiona un senso di una interiore gioia.”

Beppe

lunedì 16 febbraio 2009

IL MONUMENTO ALL'INDIANO a cura di Giuseppe Valentini

Ogni fiorentino che percorre le Cascine alla estremità del parco inevitabilmentes 'imbatte nel monumento all'Indiano a forma di pagoda, al centro della quale emerge il busto del Maharaja. Dopo avere osservato la statua giriamo intorno alla pagoda ammirandone la preziosa fattura in pietra a forma di baldacchino, contornata da una preziosa cancellata. Sotto il monumento in quattro lingue: italiano,inglese, indi e punjabi si descrive la storia dello sfortunato principe. Nell'osservare il suo busto è che nonostante la sua morte sia avvenuta a vent'anni (come scritto sulla lapide) a ben guardarlo ne dimostra di più, ma forse è solo una mia impressione. Il monumento fu costruito nel 1870 dallo scultore inglese Carlo Francesco Fuller. La storia, quella che ci interessa e che ho potuto raccogliere, è la seguente: il giovane principe indiano Rajaram Chuttraputti, Maharaja di Kolhapur, per migliorare le sue conoscenze si recò in Inghilterra nell'ottobre del 1870 con tre mogli e un numeroso seguito di cortigiani. A Londra, dove era andato per studio, fece una breve sosta per salutare la Regina Vittoria che non trovò perché assente, ma fu ricevuto con tutti gli onori del rango dall'allora Primo Ministro William Ewart Gladstone il quale consigliò al Maharajah di percorrere il suo viaggio di ritorno verso l'India visitando Parigi e Nizza e Genova e da lì trasferirsi a Firenze. Durante la sua breve permanenza a Firenze ne approfittò per ammirare le bellezze della città che ben presto divenne a lui cara essendo amante dell'arte. Alloggiava al Grand Hotel di Piazza Ognissanti quando fu colpito da un improvviso malore, probabilmente da un attacco derivato da un infezione polmonare che si trascinava da tempo e che il 30 novembre del 1870 lo uccise all'età di vent'anni. Nel rispetto del rito braminico il cadavere doveva essere bruciato e le sue ceneri disperse alla confluenza di due fiumi. A Firenze l'unica confluenza possibile era quella dell'Arno con il torrente Mugnone e quello fu il luogo che fu scelto per eseguire il rito. Per bruciare il cadavere del Principe il Comune di Firenze, nella persona di Ubaldino Peruzzi, diede il permesso di erigere la pira sulla punta estrema delle Cascine dove ora si erge il monumento. Secondo la tradizione, anche le tre mogli dovevano seguire le sorti del marito facendosi bruciare insieme. Per fortuna non rispettarono la tradizione del Sati e si salvarono. Molti fiorentini parteciparono al macabro rito e da allora il luogo venne chiamato "l'Indiano". Nel 1972 nei pressi del monumento fu costruito il viadotto che scavalca l'Arno, al quale venne dato il nome di Ponte all'Indiano.

Beppe

giovedì 12 febbraio 2009